Be—longing. Simposio Italia — Egitto. Italia / Prologo. Per una mostra al Cairo 16 — 23 ottobre 2022 Castello di Monteserico Genzano di Lucania — Potenza
Egitto
Hossam Sakr, Halla Shafey
Italia
Felice Lovisco, Salvatore Comminiello, Dario Carmentano, Vito Masi, Marcello Mantegazza
realizzata da Porta Cœli Foundation
a cura di Donato Faruolo per l’Italia
ingresso gratuito
aperta dal martedì alla domenica
ore 10.00 — 13.00 / 15.30 — 19.00
+39 0972 36434 / +39 348 5829789
Be—longing è un simposio tra artisti italiani ed egiziani che si svolge nei mesi di ottobre e novembre 2022 nell’ambito delle prime azioni di ABCD – Alto Bradano contemporary district, il neonato distretto che intende mettere a sistema le risorse materiali e immateriali dei comuni di Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania nell’intento condiviso di promuovere la produzione di nuovo patrimonio cultuale sul territorio. Il simposio nasce da una suggestione dell’artista egiziano Hossam Sakr, punto di riferimento per la comunità artistica e accademica del Cairo, ed è sviluppato da Porta Cœli Foundation tra gli interventi promossi dai Piani integrati della cultura della Regione Basilicata. Prevede uno scambio culturale tra pittori egiziani e omologhi italiani, e la realizzazione di una mostra delle loro opere presso il Castello di Monteserico, da esportare successivamente presso la Nile Gallery del Cairo.
Le difficili congiunture internazionali, sempre pronte a ricordarci quanto la necessaria interconnessione tra le vicende umane sul pianeta ci renda tutti vulnerabili e sia in grado di erodere i nostri spazi di azione nel mondo, hanno impedito alle opere e a diversi artisti egiziani di essere presenti in Basilicata in tempo per la tappa italiana: in loro rappresentanza, i convenuti Hossam Sakr e Halla Shafey hanno generosamente deciso di lavorare in residenza, producendo in loco un corpus di opere che traggono vantaggio da un lavoro di ricerca specifico e particolare, attuato nelle stanze del complesso abbaziale di Banzi. Resta salvo il programma di visite e incontri sul territorio e l’integrità della mostra egiziana, che vedrà la presenza, per l’Italia, di Dario Carmentano, Salvatore Comminiello, Felice Lovisco, Marcello Mantegazza e Vito Masi, e per l’Egitto, oltre a Hossam Sakr e Halla Shafey con le opere originariamente concepite per essere esposte nel progetto, di Gehan Fayez, Asmaa Genidi, Aliaa El Gready, Ahmed Reffat Soliman, tutti a vario livello rappresentanti di spicco di ciò che istituzionalmente e accademicamente è ritenuto “lo stato dell’arte” della pittura intorno alla città del Cairo. Gli artisti italiani sono stati invece selezionati con l’intento di rappresentare, nell’ambito della pittura e delle sue tangenti, uno spaccato quanto più vario e difforme possibile per generazioni e approcci. Visto il carattere pubblico dell’operazione, abbiamo inoltre ritenuto opportuno che tali artisti fossero scelti tra quei lucani che sono stati in grado di diventare riferimento per qualità nella propria disciplina e per relazioni nella propria comunità artistica e culturale, oltre che per la loro costanza nell’espressione di una singolarità nell’ambito della pittura contemporanea in occidente.
L’arte – come la storia, la letteratura, la filosofia – non può essere soppesata in base a quanto sia efficace nel tenerci al riparo dagli errori, dai guai e dal dolore. Ma se c’è una cosa che davvero è in grado di insegnare – da intendersi come effetto e non come precondizione dell’essere arte – è proprio che è possibile trarre giovamento dalla rinuncia a uno stato di aspettativa preconcetta in cerca di semplice, diretta soddisfazione. È un aspetto su cui l’arte ha davvero la facoltà di ridisegnare le nostre mappe neurali, di aprire recettori e di educare perfino la dimensione del piacere e dell’emozione – ancora, intesa come approdo e non punto di partenza per un giudizio estetico. Spesso in modo indiretto e attraverso la frustrazione e lo scompenso di una relazionalità standard, insegna a decentrarsi dal sé, ad aprirsi a una dimensione di sospensione del giudizio che sia una disposizione a modificare la propria ricettività in base alla muta interrogatività di un’opera, che per il solo fatto di essere nel nostro mondo ci riposiziona non come individui protagonisti di un dramma solipsistico, ma come interlocutori che definiscono un proprio essere “soggetti” solo nella conversazione, nella negoziazione dei significati, nel confronto aperto che ci spinge fin dove si rischia la perdita di un’identità come condizione originaria.
Non sorprende che esistano discipline il cui solo scopo è quello di confrontare discipline: l’obiettivo delle letterature comparate, per esempio, è quello di cercare nuovi contenuti potenziali a partire dalla messa a sistema dei ritrovati di diversi sistemi culturali, posti sul piano del confronto in base a indicatori di natura sociale, storica, antropologica, economica, politica, estetica... Ne viene fuori che ogni entità culturale non sia di per sé depositaria di qualità indubitabili e fisse, né è possibile individuare qualità necessarie e sufficienti per definire l’arte fuori dal contesto che ne genera la tessitura culturale. L’arte detiene piuttosto una certa capacità di reagire all’ambiente proprio e altrui, lasciando emergere sottotesti e ipertesti della società che la sviluppa, prima ancora che entro un’opera o un recinto disciplinare. Sempre che si prefigga di essere prodotto e produttore del proprio mondo e non suo ornamento accessorio. Per certi versi, è ciò che dice Arthur Danto quando dice che ciò che distingue l’arte dalle “mere cose” è la capacità delle opere di essere “a proposito di”.
Potrebbe apparire vacuo ecumenismo di maniera. Ci si rende conto invece che l’idea di porre in un dato contesto artisti italiani ed egiziani in modalità di interazione culturale possa generare “contenuti” altrimenti destinati a essere taciuti, o quantomeno sottesi. Le variabili di Be—longing sono ovviamente innumerevoli. Chi sceglie gli artisti? In base a quale parametro? È lecito renderli rappresentativi di un intero panorama, testimoni di un contesto culturale? Dove è il caso di porre i limiti tra quei contesti cultuali o, di converso, fin dove è opportuno sottolineare invece l’assenza di un confine netto a vantaggio dell’evidenza di una comunanza? Impossibile rispondere a queste domande, se non ponendo il presupposto che questa operazione non abbia la pretesa di essere in alcun modo esaustiva, enciclopedica, dimostrativa, ma voglia essere invece un’opportunità per cominciare un racconto, una rappresentazione, un percorso, e voglia essere un’occasione per estrinsecare il confronto in se stesso, come feconda accidentalità, per il puro piacere di provocarsi sulla soglia di quella mediazione culturale che in continuazione ci definisce e ridefinisce, ci fa riconoscere e disconoscere.
Ci si rende conto, per esempio, che in questo racconto il tema della storia sembra strutturare a fondo gli immaginari degli artisti lucani, fatto che emerge come specificità ma che è anche un valore universale di molta arte europea: segni, reperti, scritture si fanno sorprendentemente “occidentali”, senza per questo divenire propaganda di supposte egemonie culturali. La dimensione dell’archeologia (perfino quella industriale o interiore) diventa immanente, ubiquamente presente, emblematica di un intero apparato della cognizione contemporanea. La testa di una scultura classica che interroga una melagrana, in una mostra italiana, potrebbe essere un’attesa manifestazione postmodernista; al Cairo diventa testimone di uno spaesamento culturale, rievocazione di un’identità che è data per perduta e che si anela essere presente, accoglimento della frammentarietà come condizione di esistenza: una grecità non più scontata, una classicità su cui non è più possibile sorvolare. L’arte si auto-riflette quando si vede riflessa altrove. Il castello, la cattedrale, il frammento scultoreo e le intertestualità con gli assunti culturali dell’arte occidentale – una pervasiva pulsione a un senso perenne della classicità, sia essa greca, romanica, gotica, rinascimentale – in modo inatteso, senza che le opere e gli artisti fossero selezionati in funzione della dimostrazione di una tesi, appaiono accordate su una modalità che diventa “panorama”, scena, contesto (contexĕre, tessere insieme).
Dall’altro lato, gli artisti egiziani – sia quelli presenti in Italia che gli altri coinvolti ma assenti – sembrano insistere in modo straordinariamente concorde sulla necessità di fare della pittura al tempo presente uno spazio per l’esplicitazione di una complessità culturale ormai inestricabile, priva di gerarchie e direttrici. Decaduto il pluricentenario divieto iconoclasta – massima espressione di riguardo per l’immagine come ganglio della coscienza – si muovono in un plurilinguismo sincretico in cui convivono linguaggi, apparati di segni, modalità e sistemi della pittura, tecniche e materiali, giustapposti per livelli o per aree di reciproca influenza, con un richiamo a pratiche informali, concretiste, espressioniste che è sempre connesso a un’attitudine intrinsecamente calligrafica. Non è un attacco a quel senso di organicità e immanenza che è tipico di quella citata dimensione del classico, né una sua ridiscussione, come è per gli artisti italiani presenti, spesso malinconicamente introvertiti nella dimensione della decadenza: è piuttosto l’inquieta quanto pacificata e vitale assunzione della complessità e dell’imponderabilità del mondo e dei tempi presenti, alla ricerca di un linguaggio che deve farsi sempre più aperto e inclusivo, sempre meno prescrittivo e gerarchico, nel tentativo di riflettere una parte ampia o sfuggente del reale che non è colta dal positivismo, dalle tassonomie scientifiche, dai glossari, dalle tavole periodiche e perfino dalle strutture geometriche dei caleidoscopi.
Be—longing non poteva che porsi il problema di riflettere sulle modalità attraverso le quali il senso di appartenenza a un luogo – che sia consapevole o sommerso, intenzionale o subìto – possa influire sul lavoro artistico: il confronto tra potenziali e ipotetiche dimensioni territoriali dell’arte tra le due sponde del Mediterraneo prevede anche una dislocazione “forzata” degli artisti o delle loro opere sui fronti interessati, in cerca di quelle rivelazioni per contrasto, di definizioni precarie per riflesso. Nell’intenzione di condurre gli artisti egiziani nei luoghi dell’Alto Bradano, ci siamo quindi interrogati sul contributo che questo territorio potesse dare, proprio sul tema dell’abitare, ad artisti provenienti da una megalopoli come Il Cairo, che da sola ha più di un terzo della popolazione dell’intera Italia. In questi anni Il Cairo sta costruendo un capitolo fondamentale e sbalorditivo del proprio prossimo futuro, con l’estensione di una nuova città satellite di fondazione, “New Cairo”, sulla scorta di quanto l’occidente ha fatto decenni addietro con l’invenzione dei metodi dell’architettura e dell’urbanistica moderna dopo la Seconda guerra mondiale. Curiosamente, il compimento di questo slancio dirigista, progettuale, determinista della modernità occidentale si è concretizzato in modo cristallino, per esempio, in due città non occidentali: Brasilia, con Oscar Niemeyer, in Brasile; Chandigarh, con Le Corbusier, in India. Un percorso sulla rifondazione delle strategie dell’abitare che nella sua gloria e nel suo fallimento passa attraverso delle tappe di straordinario interesse proprio nel bacino del Bradano e nel suo sistema territoriale: lo sfollamento dei Sassi di Matera, con il conseguente laboratorio antropologico intorno alla forma dei nuovi insediamenti abitativi e i modelli propugnati in primis da Adriano Olivetti; la Riforma agraria, con il sogno fragile e l’incubo persistente di una civiltà agricola ridisegnata e stravolta sulla carta; e infine la Carta di Matera, in cui Pietro Consagra metteva in guardia dal tecnicismo delle “macchine da abitare” in favore di un possibile contributo degli artisti a salvaguardia della varietà e della florida disomogeneità delle città che la nostra cultura più ama. Il monito di Consagra si avvera oggi nelle periferie come oggetto di attenzione speciale, che private di gerarchie e di pregnanza simbolica vengono private anche del funzionalismo perseguito.
Be—longing è il titolo di questa azione che prova a mettere a sistema il tema dell’appartenenza – to belong, l’autenticità, l’identità, la determinazione, la radice – con il tema del desiderio – longing, lo slancio, l’aspirazione, la mutazione, il divenire. Lì dove operare nell’arte vuol dire demistificare il mondo fino alla sua scarnificazione, ma anche rinunciare a una vacua operazione di dismissione culturale di fronte a una radice simbolica che è la base di ogni ulteriore peregrinare.